Mi piaceva stare seduto in riva al mare, ad aspettare che calasse la notte.
Mi piaceva guardare quel buio che lentamente avvolgeva ogni cosa, lasciando scivolare il sole nell’acqua per sbriciolarlo in migliaia di piccole lucine sparse nel nero sopra la mia testa.
Era nelle giornate in cui il sole filtrava silenzioso tra le nuvole, che mi tornava in mente la mia vita, si alzavano in me le voci del passato a scaldare la mia dolce solitudine, la silente tristezza dei miei giorni che trascorrevano lenti nella loro apatia.
A volte mi domandavo se qualcuno mai avrebbe ricordato il mio nome, se avrei mai incontrato qualcuno capace di guardare ancora nei miei occhi, se ci sarebbe stato ancora un uomo che avrebbe voluto stringere queste mani colpevoli di aver ucciso senza pietà.
Mi chiedevo soprattutto se ci sarebbe stato qualcuno in grado di perdonarmi e compatirmi.
Era al calare della sera, in cui la luce e il buio diventano fratelli, che rivedevo il volto dell’ultimo uomo che avevo ucciso.
Il suo viso impaurito, dai lineamenti così diversi dai miei, mi é comparso innanzi all’improvviso.
Ci siamo guardati, poi ho sparato.
E’ stato allora che ho capito quante volte avevo sbagliato.
Eravamo tutti cani che obbediscono al padrone, insetti da schiacciare, pedine da spostare su una scacchiera, pupazzi senza volto buttati sul letto della morte.
Chi avrebbe saputo fare più vittime avrebbe sicuramente vinto.
Non ho idea di chi abbia portato a casa quell’atroce trofeo insanguinato.
Ho, come si suol dire, disertato.
Praticamente é l’unica cosa che un uomo ragionevole dovrebbe fare, considerato il fatto che un uomo ragionevole non dovrebbe mai uccidere un altro uomo ragionevole. Ma la paura di morire davanti ad un plotone d’esecuzione spinge molti di noi a tentare la fortuna.
Ma é un prezzo pesante perché per uno che vuole vivere, un altro deve morire.
Ed é orribile. Inumano.
Quegli occhi mi squadrarono per pochi istanti, era come se avessero chiesto pietà. Ed io non la concessi.
Cadde a terra come un macigno.
Era morto.
I suoi occhi continuavano a fissarmi.
Scappai, me ne andai.
Fu allora che trovai quel piccolo tunnel sotterraneo.
Era uno stretto pertugio nascosto da rovi e cespugli.
Entrai e dopo averlo percorso tutto, sporco di terra, infangato e sudato, mi trovai in una landa silenziosa e paradisiaca.
Era quasi un miracolo.
Mi spogliai dell’uniforme e percorsi così tanti chilometri a piedi che il giorno e la notte si alternarono senza tregua sotto i miei passi.
Più camminavo e più i rumori della guerra si allontanavano, diventavano vaghi, lontani.
Come i ricordi.
Poi mi fermai.
In quei mesi, o forse anni o magari secoli (chi ricorda quanto tempo é passato!) mi sono costruito una casa, ho imparato a capire gli animali, a vivere col mare, a parlare col cielo, ad essere una parte della natura.
Solo, a volte felice, a volte distrutto dal dolore di ciò che avevo fatto, ho vissuto, giorno dopo giorno, ricostruendo me stesso.
Sono stato più vivo in questo periodo misterioso che in tutta la mia vita, in tutto il mio passato.
Eppure quel volto ancora mi tormentava.
Era come una condanna, come il mio triste dazio da pagare.
Fino a quando non sarei morto.
Non ho mai compreso il senso della vita come in quel periodo.
Tutto era mio ed io facevo parte del tutto.
Niente sogni, niente illusioni.
Solo il presente, solo il tempo da vivere ogni giorno fino alla fine.
Era come se fossi rinato.

Oggi é stato l’ultimo di quei giorni.
Quando ho saputo la verità é stata dura da accettare, da credere.
Ma ho dovuto eseguire, nuovamente, degli ordini.
Mi sono rimesso l’uniforme, era ancora lì, seppellita nella terra, sporca e bagnata, e mi sono incamminato verso l’entrata di quel tunnel.
Sono partito presto, era mattino, all’alba, come se avessi avuto una missione da compiere.
Avevo sognato gli occhi di quell’uomo che avevo ucciso, mi aveva ordinato di correre da lui.
Ed io non potevo non obbedire, non riuscivo a non farlo.
E tutto era così pazzesco, non riuscivo a capire perché stessi agendo così, perché stessi camminando, correndo, strisciando dentro quel tunnel per tornare da dove ero scappato.
Il mio elmetto era pesante, non ero più abituato ad indossarlo, c’era sopra quella scritta che avevo fatto con un pennello e dell’inchiostro bianco, BULLHEAD, testa di toro, come me, ero sempre stato un duro, cocciuto, e ora, nonostante fossi cambiato, stavo tornando indietro, un disertore, un assassino.
Perché stavo lasciando quel paradiso, per che cosa? Perché?
Era ormai quasi giunta la sera e mi stavo avvicinando all’uscita del tunnel.
Il cielo era plumbeo, piovigginava e iniziava a fare freddo.
Mi muovevo ad una velocità folle, tutto mi correva attorno rapido, senza forma precisa, ogni cosa sembrava un’ombra, io correvo, correvo, correvo.
Sentivo rumori raggiungermi da lontano, esplosioni, spari.
La guerra non era ancora finita.
Ma perché stavo tornando indietro, perché stavo abbandonando tutto ciò che avevo imparato, avevo avuto, avevo amato e avevo sempre sognato?
Non riuscivo a fermarmi, mi ordinavo di smettere di camminare, ma nulla da fare, piantavo i talloni a terra ma le mie gambe si muovevano da sole, avevo paura, urlavo, niente, non riuscivo a bloccare la mia corsa.
Arrivai all’uscita, Riuscii finalmente a fermarmi.
Mi trovai nel bel mezzo di un combattimento, mi voltai e dietro di me era svanita la porta di quel tunnel, c’erano solo terra, alberi e rocce.
Cosa era successo?
Innanzi a me uomini si uccidevano, si sparavano, pareva di essere ad una battuta di caccia, morte, solo morte, niente altro che morte.
Stavo lì, inebetito.
Quel luogo… chi ero? Dove mi trovavo?
Il mio fucile fumava, ma io… Io non avevo sparato, cioè, oddio, no… Non poteva essere vero…
Mi guardai ai piedi.
Il corpo senza vita di quel soldato mi fissava, io ero lì, alto su di lui.
Una fitta al petto… Portai la mano sinistra al cuore.
Sangue, Brividi.
Che scherzo era mai questo?
Io… io stavo morendo.
Lasciai cadere il fucile, guardai l’uomo che avevo ucciso, capii che anche lui mi aveva colpito, sparato.
Io… io stavo per morire…
Buio.

Ho amato June più di me stesso.
Forse proprio per questo oggi non é più al mio fianco.
Ma dentro di me resterà fino al giorno in cui vivrò, in cui il mio corpo deciderà di abbandonare questa nostra terra di tedio e noia per un mondo migliore o più semplicemente per il nulla eterno.
Quando la conobbi era una ragazzina e poco alla volta si era fatta donna.
Assieme a me.
Più gli anni passavano e più diventava bella.
I suoi capelli castano chiaro, le sue gambe lunghe, i suoi grandi occhi scuri, come la notte, il suo viso lungo ma così aggraziato, le sue mani sottili con quelle dita affusolate, tutto mi piaceva di lei, tutto.
La sua voce roca, bassa, quella risata strana che si trasformava in una sorta di rantolo, quelle sue frasi che ripeteva a volte come un disco rotto, il suo modo di abbracciarmi, quasi volesse soffocare la mia anima, tanto era il desiderio di essere suo.
E soprattutto quella carezza lieve, sulla mia guancia, con l’esterno della mano.
Sembrava una piuma, un soffio di vento che si posava sul mio volto.
Era una piccola bugiarda, egoista, amava essere al centro dell’attenzione, voleva che tutti la notassero e poco alla volta aveva incominciato a comportarsi da sciocca, a basare la propria esistenza sull’apparenza, a tingersi i capelli di colori sempre più strani, a bere e a fumare, a riempirsi di anelli in ogni dove, a tatuare la sua pelle.
Era insicura, fondamentalmente.
Cercava di essere forte, ma era una corazza che si era creata e che non riusciva a ripararla dal mondo esterno.
Lentamente aveva iniziato a staccarsi da me, ad allontanarsi, a dimenticare che io ero sempre lì al suo fianco, fino al giorno in cui era sparita.
Era svanita per giorni, senza farsi sentire, senza dirmi nulla.
Io ero impazzito, il suo comportamento mi aveva devastato e il mondo mi era crollato addosso quando avevo capito che era finita.
Avrei voluto piangere quel giorno.
Ma ero come un fiume in piena sepolto in un deserto.
L’avevo lasciata.
Poi per più di un anno non avevamo fatto altro che ferirci rincorrendoci e abbandonandoci, dicendoci cose che forse non pensavamo neppure, mentre io la vedevo andare a picco, scivolare sempre più in un tunnel di silenzio senza ritorno, divenire vuota, appassire, forse per colpa mia, forse perché sapeva di aver perduto qualcosa di così grande da non poterselo perdonare.
I suoi capelli erano divenuti secchi e un giorno li aveva tagliati a zero, i suoi occhi erano segnati da grosse occhiaia, la sua pelle era appassita, così come il colore del suo volto, mentre i suoi occhi erano divenuti ancora più scuri.
Io avevo anche cercato di farmi perdonare, ero tornato da lei, ma non aveva potuto fare a meno di vendicarsi e mi aveva ingannato ferendomi a morte con il suo modo di agire.
Così avevo deciso che dovevo dimenticarla.
Me ne andai lontano, viaggiai per qualche mese senza una meta precisa, alla ricerca di me stesso e di quello che avevo perduto.
Nonostante il tempo fosse passato velocemente, continuavo a pensare a lei.
Sempre.
Poi, finalmente, riuscii a scrollarmela di dosso e conobbi una ragazza stupenda.
Rose era molto bella, una tipa veramente strana, forse semplicemente matta, una dolce ragazza sempre allegra e sorridente.
Era alta, Rose, magra a tal punto da domandarsi se mangiasse, con due grossi occhioni verdi, un collo molto lungo, sembrava uscita da un quadro di Klimt o di Schiele.
A suo modo era straordinaria.
Ogni volta che io e Rose ci incontravamo era emozionante, passavamo intere giornate a parlare guardandoci negli occhi quasi volessimo rubarci l’anima l’un l’altro.
Era tutto così vivo tra noi, vero.
Ma anche tutto così terribilmente fragile.
Io, me ne rendo conto a volte quando mi guardo dentro, sono uno psicopatico mancato, perennemente depresso e cado sovente in paranoia.
Vorrei molto spesso fare a meno di esistere, ma non ci riesco.
Sento di essere sbagliato, di non riuscire ad essere la persona che sono, ho paura di liberare me stesso, perché temo che potrei impazzire.
Vorrei essere l’unico uomo sulla terra, ma so che é impossibile.
Da quando June mi aveva abbandonato la mia schizofrenia era aumentata e cercavo sempre più di isolarmi dalla realtà, chiuso a riccio in me stesso, odio e dolore, disprezzo e noia, fin dentro le mie ossa.
Nel profondo.
Per fortuna era arrivata Rose.
Ma come ogni cosa bella un giorno deve finire, così anche Rose mi aveva abbandonato.
Forse per colpa mia.
Eravamo stati insieme parecchi mesi io e lei e il nostro rapporto, come ogni altro, si era evoluto.
Arriva un momento in cui hai bisogno di andare oltre.
Non saprei spiegarmi con precisione.
Ho una visione sacra di ogni cosa.
Per questo a volte faccio fatica a rapportarmi con gli altri.
Quella notte eravamo soli, io e lei.
Non so che cosa avessi quella sera, ma mi sentivo strano, ero agitato, nervoso, isterico. Continuavo a sentirmi in colpa per il fatto di essere lì con lei e non con June che all’improvviso aveva cominciato a tornarmi in mente.
Non capivo perché, considerando che non l’avevo più sentita, neppure pensata da ormai molti mesi.
Sapevo solo che si era messa con un altro e la cosa mi aveva fatto molto male perchè ho sempre pensato di essere unico.
Ma non era il primo con cui era stata… ne aveva avuti tanti, anche quando stavamo assieme, avevo scoperto.
E la cosa mi aveva ferito.
Per questo motivo ero in crisi con me stesso.
Il fatto che poi qualcuno potesse baciarla, sfiorarla, non so, mi mancava da impazzire. Eppure io ero con Rose.
Rose che mi sorrideva e parlava, mentre la mia mente vagava chissà dove.
Mi ero scolato mezza bottiglia di whisky ed ero caduto in una spirale depressiva che mi stava avvolgendo e consumando.
Rose girava per la stanza in mutandine e canottiera.
Eravamo al mare, avevamo affittato una casetta per una settimana.
Era un posto tranquillo, praticamente sulla spiaggia, un posto davvero incantevole.
Faceva caldo, la luce dei lampioni bagnava il soggiorno arredato con mobili bianchi, un sofà soffice color kaki, un’enorme televisore che teneva tutta la parete, uno stereo da quattro soldi che si sentiva abbastanza male, e una scala che portava al piano superiore della casa.
Era tutto così calmo, tranquillo.
Mi accesi una sigaretta e la fumai con gusto seduto appena all’esterno della porta vetrata che dava sulla spiaggia.
Guardavo il fumo svanire davanti ai miei occhi lucidi.
Rose mi ronzava attorno senza capire di disturbarmi.
Continuava a parlarmi ed io ero sempre più nervoso.
Poi si diede lo smalto alle unghie dei piedi e se ne stette un pò buona.
Quell’odore fastidioso mi entrò nel naso, decisi di rimanere ancora un po’ fuori e mi fumai ancora qualche sigaretta finendo la bottiglia.
Non capivo più nulla.
Ero in un mondo allucinante.
Il mare si spegneva sulla sabbia, mescolandosi lentamente al bagnasciuga.
Era quasi piatto.
Le luci delle città lontane si riflettevano su quella macchia nera che si perdeva all’orizzonte.
Un vociare continuo veniva da dietro la casa, dal paese.
All’improvviso mi sentii chiamare.
Una voce roca, calda.
Era June.
Mi alzai di soprassalto, barcollando rischiai di cadere.
Rose arrivò ridendo e mi prese.
Mi appoggiai a lei e le biascicai qualche cosa di incomprensibile nelle orecchie.
Rose mi prese per mano, mi portò verso la camera da letto aiutandomi a salire le scale.
Mi portai dietro la bottiglia di whisky e bevvi l’ultimo sorso entrando in camera.
Caddi come un sacco di patate sul letto.
Mi si sedette sulle cosce.
June mi chiamava.
La sentivo, la sua voce roca era inconfondibile.
Rose mi tolse la maglietta e cominciò a baciarmi.
June rideva.
Io mi guardavo attorno cercandola, tutto ruotava e si mescolava, la luce dell’abatjour diventava parte del muro che si scioglieva nel letto e mi entrava nelle narici, come un caldo respiro d’estate.
Mi slacciò i pantaloni e me li sfilò.
Io, nonostante non capissi esattamente che cosa stesse succedendo, ero molto eccitato. Mi tolse anche i boxer e poi si sfilò le mutandine.
Io la guardavo sopra di me.
Era bellissima, non fosse stato che la vedevo ondulare e mutare, mescolandosi nel buio della stanza come l’impasto di un dolce nella terrina…
June mi continuava a chiamare, mi sussurrava nelle orecchie, mi chiamava.
June.
La sentivo attorno a me.
June mi cercava e io non sapevo dove potesse essere.
Scuotevo la testa a destra e a sinistra per vedere dove fosse.
Niente.
Rose mi salì sopra ed io entrai nel suo corpo.
Mi sorrideva.
Io non capivo.
June continuava a chiamarmi.
Rose chiudeva gli occhi, mi baciava e mugugnava.
Io non sentivo nulla.
Solo la voce di June.
June rideva, Rose godeva, io impazzivo.
Mi tolsi da Rose, la sollevai e la stesi sul letto.
Con la poca forza che avevo, un desiderio di vomitare incredibile e la testa che mi scoppiava, le salii sopra e la penetrai.
Mi si avvinghiava come un polipo.
June era lì, da qualche parte, ma dove?
Rose si dimenava sotto di me e non mi lasciava pensare.
June mi chiamava e rideva.
Tutto cominciò a diventare buio, a svanire attorno a me.
Avevo capito.
Forse.
Carezzai le guance di Rose e le piantai le unghie ai lati del piccolo nasino e diedi uno strappo.
Urlò.
June rideva.
Sapevo che era lì dentro.
Continuavo a spingermi dentro di lei e a strapparle via il volto.
Le morsi via il naso ma non c’era sotto quello di June.
Le strappai la bocca ma non c’era sotto quella di June.
Le sfondai lo sterno, le portai via i seni ma non c’erano sotto quelli di June.
Eppure lei rideva e continuava a chiamarmi.
Rose continuava a godere nonostante le avessi squarciato il petto e le avessi strappato il cuore per vedere se era quello di June che aveva gioito a squarciagola in quell’istante.
Mi tolsi da dentro il suo corpo.
Mi ero sbagliato.
June non c’era.
Eppure doveva pur essere da qualche parte.
Continuava a chiamare il mio nome, la sentivo.
Capii allora che doveva essere dentro di me.
Scesi dal letto, afferrai la bottiglia vuota di whiskey e corsi in bagno.
Sentii bussare alla porta.
Il rumore, le urla di Rose che mi chiamava, la voce di June che mi pulsava dentro.
Dovevo far veloce.
Non capivo più nulla.
June chiamava dentro di me.
Dovevo liberarla.
Spaccai la bottiglia contro il bordo del lavandino e iniziai a tagliarmi.
Sotto la mia pelle però non vedevo June ma solo sangue, come in Rose.
Sentivo le sue urla fuori dalla porta, poi un trambusto, come oggetti che cadevano e il silenzio.
Afferrai il rasoio e mi tagliai i polsi fino alle spalle, mi squarciai la pancia, June rideva come una pazza ma non riuscivo a trovarla.
Cominciai a frugarmi nella pancia, infilai la mano nello squarcio che mi ero fatto, sentii un forte dolore e tanto calore, ma di June nessuna traccia.
Fu quando capii che ce l’avevo in testa che sfondarono la porta e mi bloccarono.
Avevo il rasoio appoggiato alla tempia sinistra dopo aver provato a spaccarmi il cranio contro il bordo del lavandino, che però si era spezzato in due cadendo in frantumi sul pavimento e dopo aver rovistato nell’orecchio destro per cercare di pulirmele per bene.
Urlai di lasciarmi stare, mi gettarono a terra, io gridavo, June era nella mia testa che rideva, io gridavo e lei rideva, loro mi tenevano fermo e sentivo che vomitavano nell’altra stanza, io urlavo, Rose mi fissava immobile piangendo, io non capivo più nulla, poi ambulanze, fasce, camicie, io gridavo, June rideva, Rose piangeva, iniezioni, tamponi, garze, infermieri, polizia, io piangevo, ridevo, gridavo, vomitavo, Rose era immobile e mi guardava, June gridava, Rose piangeva, io urlavo, mi portarono via.

Oggi sono qui, in un luogo grigio, che non ha finestre sulla spiaggia, in una stanza con le pareti imbottite perché appena posso mi lancio contro il muro, con addosso una camicia con le maniche così lunghe che hanno dovuto legarmele dietro la schiena, solo, perennemente inebetito fisso il cielo dalle grate della finestra che é troppo in alto per poter vedere qualcosa di diverso dalle nuvole.
Mi portano da mangiare sempre la stessa roba e mi parlano, ma io non rispondo, li guardo e sento un fischio nella testa.
Le voci sono lontane, devo girare la testa a destra per poter sentire perché dalla sinistra sono sordo
E’ venuta ieri a trovarmi una donna che aveva una voce roca, calda.
Ha pianto, mi ha fissato a lungo.
Non so chi fosse.
Allora le ho chiesto se per caso avesse visto June.
Mi ha sorriso ed ha pianto di nuovo.
Poi mi ha dato un bacio sulla guancia.
E una carezza leggera, come una piuma, con l’esterno della mano.
Un soffio di vento sul mio volto.
June moriva di invidia nella mia testa e gridava gridava gridava.
Quando quella donna se ne andata non si é girata indietro neanche una volta.
Era bella.
Come June.